La tutela dei minori dagli abusi, nella prospettiva della Chiesa, non vuol tanto dire repressione ma piuttosto educazione, formazione, consapevolezza. Lo spiega Chiara Griffini, psicologa, dal maggio scorso presidente del Servizio tutela minori e adulti vulnerabili della Cei. Appuntamento di rilievo è della Giornata di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi del prossimo 18 novembre
Come mai avete scelto di intitolare questa Giornata “Ritessere fiducia”?
Le ricerche ci dimostrano che l’abuso sessuale accade nel cosiddetto cerchio della fiducia, potremmo dire che all’origine di ogni abuso insieme all’abuso di potere come ebbe a dire papa Francesco nella Lettera al popolo di Dio dell’agosto 2018, vi è un abuso di fiducia. E in questo cerchio vi è anche la Chiesa. Una rottura nella fiducia che non riguarda solo vittima e autore ma una comunità, in ciascuna delle sue forme e dei suoi membri. Una rottura che investe anche coloro che esercitano l’autorità nella comunità. Anche costoro sono attraversati dalla stessa domanda delle vittime, dei genitori, magari non riescono ad assumerla per ciò che tale assunzione comporterebbe: a chi ho dato fiducia? “Ritessere fiducia” è ripartire da questa consapevolezza per crescere nel promuovere la fiducia come qualità fondamentale di ogni relazione nella Chiesa, e il suo rispetto al di sopra di tutto, e sostenere coloro che ne sono stati traditi in un lento e faticoso percorso di ritessitura, perché perdere la fiducia è perdere se stessi nel dinamismo proprio dell’umano che è affidarsi e tendere ad essere affidabili e del credente che perde la fiducia in una comunità di fratelli e sorelle, oltre che la fede in un Dio che è Padre.
Le riflessioni preparate per la Giornata da alcune vittime di abusi e da alcuni genitori di ragazzi abusati presentano varie domande laceranti. Segno che la Chiesa è finalmente disponibile ad aprire il cuore con trasparenza e coraggio per tentare di dare alle vittime tutte le risposte possibili?
Le riflessioni sono frutto di un cammino che è partito dall’incontro periodico di queste vittime e di familiari di vittime con la Presidenza e la Segreteria generale della Cei. Non sono testi su commissione, sono vita condivisa nel dolore di strappi ancora presenti che hanno aperto una via per la Chiesa italiana, la via della cura ecclesiale e spirituale, richiesta da chi è stato ferito, per un cammino di conversione della Chiesa italiana. I testi rivelano non solo come le ferite non vanno in prescrizione, ma che hanno tempi di rimarginazione lunghi, non prevedibili a tavolino, che vanno oltre i percorsi di giustizia. Vorrei anche fare una sottolineatura sulla fiducia tradita non solo in chi subisce in prima persona, ma anche nei genitori e nei familiari che si trovano a convivere con il dolore e il senso di colpa, direi perpetui, del sentirsi responsabili dell’affidamento dei loro figli e delle conseguenze che ciò ha generato sulle relazioni familiari, sui figli a livello di perdita di fede, di valori a cui saldare la vita.
Nella prima riflessione preparata per la Giornata c’è una sorta di identikit dell’abusatore ecclesiale che fa paura. Come è possibile sospettare di una persona così?
Gli strumenti sono l’informazione che diventa formazione. Una formazione ad essere persone affidabili che ti porta a riflettere su cosa significhi dare e ricever e fiducia. Direi però anche una formazione e una vigilanza comunitaria. I modelli situazionali parlano chiaro. Urge riappropriarci del paradigma evangelico del vegliare che deve saldarsi con quello formativo. Un contesto informato e formato sa intercettare i segnali e alzare le barriere che impediscono all’abuso di compiersi. Il primo segnale su cui formare e vigilare sono i rapporti esclusivi ed escludenti, le modalità di relazione che mescolano interesse personali e di servizio, l’assenza di relazioni alla pari e di collaborazione, i “brillanti e dediti solisti”, gli indispensabili per ogni attività, le calamite da cui tutto e tutti dipendono, da cui a ben guardare si è invece usurpati e appropriati.
(Luciano Moia) Continua a leggere l'intervista su Avvenire.it